19 giugno 2006

"Morire col sole in faccia" di Vincenzo Podda

(tratto da La Prealpina del 18 novembre 2005)

Il ridotto alpino repubblicano (Rar) doveva essere l’ultima, gloriosa sacca d’una sorta d’epopea fascista della sconfitta. E cioè un cadere a schiena dritta al cospetto dell’avanzare delle truppe alleate e dei militanti del Cln. E quindi una trincea dove immolare, incrociando senza paura il fuoco nemico, ideali nei quali i fedelissimi della Causa credevano fortemente tanto da reclamare in loro nome, se non un “bella morte”, almeno una “fine giusta”.
A capeggiare la Schiera era Alessandro Pavolini, figura su cui s’è dilettata molta letteratura storica, soprattutto per denunciare l’inafferrabile volatilità del progetto valtellinese dei “duri” della Rsi. E invece adesso, nel libro “Morire col sole in faccia” edito da Ritter, il saggista milanese Vincenzo Podda dà dell’idea e della sua possibile esecutività un’interpretazione diversa, fondata sul ritrovamento e l’analisi di documenti numerosi corredati da particolari inediti. La sintesi che se ne può dare è la seguente: Pavolini non era un romantico visionario che vagheggiava improbabili epiloghi della tragica avventura repubblicana. Era, al contrario, un realistico assertore della della praticabilità della soluzione del “ridotto”. Non gl’importava di chiudere tra memorabili pompe combattentistiche la vita sua e del repubblicanesimo nero, ma di dare –per dir così- una sepoltura nobile a un’esperienza da lui ritenuta comunque l’unica possibile, considerata la piega assunta dagli eventi bellici dopo il ’43.
Il Rar rimase un febbricitante sogno non per al sua impalpabilità fattuale, ma per l’intervento di fattori esogeni. Lo impedirono i tedeschi, che ben si guardarono dal far parte l’alleato di Salò della trattativa di resa della Wehrmacht nel nord dell’Italia, con ciò compiendo un gesto non altrimenti definibile che tradimento; e lo impedì il Duce in persona, scettico fin dall’inizio – nonostante qualche esternazione di tono opposto sull’opportunità dell’impresa. Se non avesse tagliato la corda rifiutandosi d’impersonare il ruolo del comandante che onorevolmente cade alla testa dei suoi più appassionati accoliti, Mussolini avrebbe consentito un’azione temeraria, sì, e però non utopistica. Tanto che i partigiani se n’erano non poco preoccupati, dandovi serio credito, proprio pochi giorni prima della Liberazione. Il fascismo dunque non ebbe –come avrebbe potuto- le sue Termopili in Valtellina per il paradossale “afascismo” di chi ne sarebbe dovuto essere il primo e più valoroso alfiere. Un mediocre muretto fu testimone della fucilazione di Pavolini e di chi, come lui, aveva pensato a un diverso “altare” su cui sacrificare il bilancio –sia pure fallimentare- di un’esistenza politica. Tra le infinite colpe fu ad essi estranea quella di non aver scelto una morte migliore: per il peggio decisero altri.

NOTA DI REDAZIONE: lontani da sentimenti nostalgici, riteniamo doverosa una nota al fondo di questa recensione, di recente rassegna stampa, che volentieri riproponiamo sul web per una celere visione.
Alessandro Pavolini, gerarca fascista della prima ora, fucilato a Dongo assieme a Bombacci ed altri fu, durante il periodo repubblichino, un teorico della resistenza a oltranza, nonchè della costituzione del cosiddetto “Ridotto alpino repubblicano” (Rar), una zona impervia del territorio italiano dove i fascisti irriducibili si sarebbero dovuti insediare stabilmente, per difendere l’onore fino alla morte.
Di Pavolini si è detto anche che, fucilato e morente, si sarebbe nuovamente rivolto al plotone del Cln col braccio teso.

(Morire col sole in faccia, Vincenzo Podda, Edizioni Ritter, 30 euro, p. 384, 2005)

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