03 settembre 2006

Caravaggio: la luce e l'ombra

di Augusto da San Buono


Caravaggio e la forma delle tenebre che interrompe il rilievo dei corpi, Caravaggio e il dramma della realtà, Caravaggio e la sua storia della religione fatta di drammi brevi e risolutivi, di lampi spietati, Caravaggio , la luce e l’ombra: la luce che rivela, fra gli strappi inconoscibili dell’ombra, uomini e santi impigliati in quel tragico scherzo che è il calcolo dell’ombra, il geometra dell’armonia che rifà la storia della pittura con brividi di luce, che si mette a studiare sui volti l’incidenza dell’ombra, nelle osterie e sulle vie di Damasco, nelle bettole e nelle tende da campo, nelle strade malfamate e nelle cattedrali, nelle stradine piene di coltelli di piazza Navona e nei crocicchi e nei vicoli maleodoranti della Roma papale; l’artista che s’incantò di fronte alla magia naturale delle cose, che si mise ad osservare la natura della luce e dell’ombra, il gioco che fanno la luce e l’ombra, il pavimento inclinato, l’ombra sul muro, il nastro caduto, si mise a teorizzare il caso, l’incidente luminoso e farli diventare causa efficiente di una nuova pittura, di una nuova poesia, facendo tabula rasa del costume pittorico del tempo. “Non vi è vocazione di Matteo – scrive Roberto Longhi - senza che il raggio, assieme al Cristo, entri dalla porta socchiusa e ferisca quel turpe spettacolo dei giocatori d’azzardo”. E’ una descrizione di luce, è il primo fotogramma poetico della storia che cattura l’attimo di cronaca in tempo reale ed emerge dal quadro quasi come un rilievo, con un’evidenza memorabile, invariabile, monumentale. Caravaggio - dice Jullian - inventa lo stil nuovo, un’armonia rara e sottile, una tecnica che si fa poesia, in cui dal nulla dello spazio nudo nascono esseri e cose, dall’informe emergono le forme; dal contrasto e dall’incertezza del chiaroscuro si stagliano le figure monumentali con la pienezza di statue, ma vive e sofferenti. Come sofferta fu la sua breve esistenza, in particolare negli ultimi anni sempre in fuga. L’ultimo tempo del Caravaggio è tragico e disperato, e la tragedia della sua vita si riflette nelle sue opere. Sono anni di fuga e nascondimento, da Roma a Napoli, poi a Malta, in Sicilia e ancora Napoli, infine Porto Ercole, dove morirà, sulla spiaggia.
Sono quattro anni costellati di opere potenti ed estreme, a volte di grande e plastica bellezza, a volte documenti di un’urgenza creativa concitata e affannosa. Tutto ebbe inizio Il 29 maggio 1606, a Campo Marzio, Roma, tra le 19 e le 22. Si giocava a pallacorda, quando Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, e Ranuccio Tomassoni da Terni, venivano a diverbio per un banale fallo di gioco contestatissimo. Ma forse dietro c’era dell’altro. Il Caravaggio lo conoscevano tutti a Roma e sapevano che oltre ad essere un grandissimo artista, un genio ( “ma non aveva varietà né correzioni, e perciò era tutto cattivo nel disegno”), era un tipo poco simpatico, un caratteraccio, un tipo rissoso, manesco, bevitore e puttaniere, che non si faceva pregare per metter mano alla spada, soprattutto se si trattava di donne, o di gioco. Ma anche l’altro, Tomassoni, non era propriamente uno sconosciuto, è un capo Rione, uno violento che sa e vuole farsi rispettare, anche e soprattutto con le cattive. Ed erano entrambi armati di spadino, dopo le parolacce passavano alle vie di fatto, si sfidavano e Caravaggio, pur ferito dal Tomassoni, uccideva il rivale con un colpo di spada ben assestato. Michelangelo, 33 anni e una vita assai movimentata, era uno tristemente noto alla Giustizia dei vari Stati italiani: varie aggressioni, a Genova, a Roma, a Milano, diffamazione e oltraggio agli sbirri. Stavolta si trattava di legittima difesa, se la poteva anche cavare, ma l’istinto gli diceva che doveva fuggire, non poteva far altro che fuggire. Sapeva che sarebbe sato molto difficile per lui trovare protettori, sia perché il Tomassoni aveva il suo peso, anche politico ( parteggiava per gli spagnoli), sia perché ha beneficiato altre volte, abusandone, dei suoi protettori-committenti (tutti principi della chiesa o alti prelati) .Infatti viene emessa nei suoi confronti una condanna a morte, per decapitazione, condanna che poteva esser eseguita, nel regno pontificio, da chiunque lo avesse riconosciuto per la strada. Lasciata Roma, la stessa notte del 29 maggio, per Caravaggio saranno quattro anni di spostamenti frenetici , ma anche fecondi dal punto di vista artistico, funestati dall’ossessione di venire acciuffato e giustiziato come prescriveva il bando. L’impeto tragico del Caravaggio non è quello del titano che si leva a bestemmiare i cieli e la terra, per quello che gli è capitato, fuggiasco senza pace e speranza, senza avvenire. No. E’ quello dello sfinimento di un uomo arreso e ormai svuotato, con il cervello stravolto, molto vicino alla follìa, come afferma Niccolò di Giacomo, l’ ultimo dei suoi committenti che incontrò l’artista lombardo di persona a Messina nell’agosto del 1609, e ne rimase profondamente colpito.
Caravaggio si rifugia nei feudi dei Colonna, dove tra l’altro dipinge quel capolavoro che è la Cena in Emmaus, oggi a Brera, in cui - a differenza dell’Emmaus di Londra, dipinto cinque anni prima - il pane è già stato spezzato e il gesto di benedire significa il congedo di Cristo, il congedo di Caravaggio che ha dipinto l’opera in quel modo rapido, essenziale, e poco più elaborato che un abbozzo, che caratterizzerà tutti i lavori di questo periodo. E’ un quadro ricco di emotività e di risonanze sentimentali.
Caravaggio continua la sua fuga disperata, si trasferisce a Napoli, dove viene accolto – dice il cronista del tempo - con “ segni di grandissima stima da’ professori e da’ dilettanti”. A Napoli riesce a trovare anche momenti di distensione e di chiarimento con se stesso e - probabilmente su commissione dello stesso vicerè di Napoli, il conte di Benavente,- dipinge la “Madonna del Rosario”, con la sua grandissima monumentalità trafitta dal fervore religioso del popolo inginocchiato; e poi quella straordinaria invenzione che è “Le sette opere di misericordia”, una complessa e animata macchina teatrale, ispirata dalla vita di strada. L’opera con quella girandola di figure lungo la raggiera, che contribuiscono al senso dinamico della scena, con la luce che sbalza le masse, i volti, i panneggi, contribuendo a evidenziare il nuovo senso sintetico del volumi, rivoluzionò l’intero panorama della pittura meridionale, divenendo un riferimento pittorico primario per tutti gli artisti che si andavano allora formando.
Da Napoli il Caravaggio si imbarca alla volta di Malta, dove approda nel luglio 1607. Qui viene insignito, dopo un anno di noviziato, del titolo di Cavaliere dell’Obbedienza. Dipinge un buon numero di quadri, fra i quali l’immensa tela con la Decollazione di San Giovanni, che firma nel sangue sgorgato dal capo reciso del Battista con le lettere f. michel A, dove la f sta per “ fra”. Tutto sembra volgere al meglio per Caravaggio, che come cavaliere di una delle più antiche e aristocratiche caste di guerrieri, avrebbe potuto chiedere la grazia al Papa. Ma dopo pochi mesi la situazione precipitò improvvisamente. Di nuovo dagli altari alla polvere, gettato nel carcere della guva (una fossa di tre metri scavata nella roccia profonda che era nel forte di Sant’Angelo a La Valletta ) e privato di quell’abito di Cavaliere, che aveva sommamente desiderato di indossare; viene espulso dall’Ordine con l’epiteto infamante di “membrum putridum et foetidum”. Non è dato sapere esattamente quali fossero le cause di un tale subitaneo rovescio. Uno studioso maltese ritiene che possa essersi trattato di uno dei sette cavalieri italiani che avevano partecipato ad un tumulto, durante il quale fu forzata la porta di un organista della chiesa di San Giovanni e un certo Rodomonte Roero, artigiano, rimase gravamente ferito, un altro sostiene che il repentino cambiamento del rapporto fra il pittore e il Gran Maestro fu dettato da un episodio a sfondo omosessuale che li aveva visti rivali. Fattostà che ancora una volta in Caravaggio riaffiora quell’incapacità, ineluttabile, di custodire le aspirazione che lo muovevano, e ogni suo buon proposito viene irrimediabilmente a corrompersi sotto la sferza di un imperativo negativo al quale sembra costretto ad obbedire.
Riesce a fuggire dalla Valletta e ripara in Sicilia, prima tappa Siracusa. Il periodo siciliano è quello più disperatamente religioso, e ciò viene documentato dal Seppellimnento di Santa Lucia e nella Resurrezione di Lazzaro, due fragilissime reliquie fatte alla mordi e fuggi. E tuttavia la resurrezione di Lazzaro è sul piano teologico, forse, il quadro più sconvolgente dell’intero seicento italiano. Il miracolo di Lazzaro viene messo in scena come prefigurazione della morte e resurrezione di Cristo, cui alludono sia il richiamo alla Pietà, resa nei due volti ravvicinati di Marta e Lazzaro che ricordano Cristo e la vergine; il teschio del Golgota e la posizione e braccia spalancate di Lazzaro che esce con immane sforzo dalla tomba. Aveva il cervello sconvolto, testimonierà Niccolò di Giacomo, sembrava prossimo alla follìa. Lasciata la Sicilia egli fa ritorno a Napoli, a palazzo Colonna, e in questo secondo e ultimo soggiorno dipinge freneticamente, forsennatamente, come se il tempo gli sfuggisse ,tutta una serie di quadri – dalla Salomè alla negazione di Pietro, i due San Giovanni Battista e il Martirio di Sant’Orsola, fino ad esaurire ogni energia. Sperimenta una pittura più abbreviata che mai, esasperando la drammaticità dei soggetti a discapito della cura formale. Ed ecco l’imprimitura rossastra come colore di base, con l’emersione delle figure dai “fondi e ombre fierissime” con lunghi tocchi di luce, in un rapporto proporzionale tra le figure e gli spazi del tutto nuovo, quasi di natura classica. Nel David della Galleria Borghese si autoritrae nella testa mozza di Golia, ulteriore richiamo ossessivo alla decapitazione, ma raffigurazione cristologia del mito come emblema del maligno, umile e antieroica. David è più vinto che vincitore e sembra implorare pietà. Nella crocefissione di Sant’Andrea il santo rifiuta la grazia accordatigli.
Il Papa Paolo V, dopo quattro anni di esilio, aveva intanto concesso la grazia al pittore, ma per Caravaggio sembrava troppo tardi, avvertiva che qualcosa si era spezzato, era stato reciso per sempre. Doveva subire il proprio martirio fino in fondo. Ed ecco che nel martirio di Sant’Orsola Caravaggio si autoritrae nella posa di chi vuol condividere il martirio; anch’egli emerge dallo sfondo brunito insieme alle altre figure costruite con lunghi tocchi di luce e colore, vicino alla santa con le mani giunte alla ferita e la testa abbassata, che guarda al suo martirio senza dolore, senza disperazione, con lucida accettazione. Caravaggio voleva rientrare a Roma, ma non sapeva ( o meglio non ne era certo) di aver ottenuto la grazia del papa e si dibatteva tra speranza e disperazione, oscillava continuamente come un pendolo impazzito, delirava. Il suo cervello era stravolto davvero e l’ultimo viaggio di avvicinamento a Roma, da Napoli a Palo, indi a Porto Ercole, gli fu fatale. Dice Baglione, l’artista che tentò di imitarlo, che Michelangelo andava per quella spiaggia sotto la sferza del solleone, ”a veder se poteva ravvisare il vascello che le sue robe portava”. Su quella nave c’erano i dipinti che portava in dono al papa, ma non arrivò mai a porto Ercole, tornò indietro, a Napoli. E lui, dopo l’accumulo di fatica, anche per il caldo di luglio, si sentiva spossato. “Si mise a letto – scrive Baglioni - con febbre maligna e senza aiuto humano tra pochi giorni morì malamente, come appunto male havea vivuto”. A Roma poco dopo arrivò un dispaccio ufficiale che riportava la notizia: “morto Michiel Angelo da Caravaggio, pittore celebre, a Port’Hercole mentre da Napoli veniva a Roma per la gratia di Sua Santità fattali dal bando capitale che aveva”. I dipinti che avrebbe dovuto portare con la feluca giunsero nelle mani di Costanza Sforza Colonna, ma il suo corpo, nonostante le lunghe ricerche, non fu mai più trovato.

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