19 aprile 2009

Antonio Leonardo Verri, pensionante dei Saraceni

di Augusto da San Buono

Premessa
…Ed ad un certo punto , in quel Salento addormentato, decentrato, periferico, pieno di sogni polverosi , dove mai nulla accadeva se non quel continuo fisso battito verso i cieli , in quel Salento vedovo dell’orfismo del conte Comi di Lucugnano , travestito da Giovanni Della Croce ; vedovo del lirismo surreal-ermetico barocco spagnolo di Bodini e del simbolismo raffinato di Pagano, geniale raccoglitore di gatti neri e cicche metafisiche (“non si può fare a meno dei sognatori, o dei conoscitori della volta del cielo, come non si può fare a meno dei librai e dei barboni”) , alla fine degli anni ’70 apparve un nuovo profeta , il Pensionante de’ Saraceni , un contadino di Caprarica di Lecce, alto, barbuto, con un occhio strabico e dall’eloquio incespicante. Era anche lui un irregolare , un maledetto, uno di quei “giocatori da superbisca” con la stecca , il gessetto e la sigaretta tra le labbra , sempre ai limiti del crollo nervoso, “ma disposto a giocarsi tutto nel giro di pochi minuti”. Si buttò a capofitto nella letteratura, una full immersion di Vittorini , Pavese , Calvino , Gadda, Bodini, Sinisgalli, Scotellaro , Beckett, Jonesco, Whitman , Queneau , Joyce , i maudit francesi , fin quando capì che il “ladro di fuoco” rimbaudiano era lui: “A suo carico sono l’umanità , e perfino gli animali; egli dovrà far sentire , palpare, ascoltare le sue invenzioni; se quello che porta da laggiù ha forma darà forma; se è informe , darà l’informe. Trovare una lingua , un linguaggio universale”. E’ tutto lì il problema. E quindi dovrà accettare le sue insidie, addentrarsi in quella foresta di significati per riemergere con immagini figurali, nuovi linguaggi, strumenti avanzati, amalgama incosciente di dati,suoni, colori, segni, oggetti, che non avrebbero trovato mai una sistemazioni definitiva . La sua opera si sarebbe nutrita continuamente di tutti i materiali possibili della realtà e dell’irrealtà , forse sarebbe servita a qualcosa, a qualcuno, o forse non sarebbe servita a niente. Comunque , lui , questo pensatore liquido e feroce , questo pensatore humoresque e tragico , che sentiva la necessità di una memoria fedele, e che era in ogni storia , - sasso , cristallo, salmone azzurro, cane , cervo, capriolo , vanga e trivello, fucina e gallo bianco voglioso di galline - avrebbe accettato di ferire e farsi ferire dalla realtà. Quello che è certo, disse, è che scrivere non è un mestiere innocente . “Per un narratore, - dice Salvatore Colazzo -per quanto sappia trattenere il respiro, sono troppe le crepe, le ferite: in lui la parola tende a moltiplicarsi ancora –“echi. Echi, solo echi”-, diventa concrezione che cresce e si autoalimenta, spurgo forse…”
Del resto , Dio acceca chi vuole e illumina chi vuole, a colpi di luce sbieca. Noi , da oggi, dice, dobbiamo finirla sia con le seghe celesti che con la teoria degli amministratori della polvere che si moltiplica in modo impressionante. E continuò a coltivare , fino all’ultimo respiro, l’impossibile sogno di chiudere il Mondo dentro un libro, “un libro – scrive Astremo - infinito, fatto di parole meravigliose, splendenti, in continuo accumulo, in continuo divenire, attraverso un’azione di lavoro sul linguaggio quasi scientifica, mai sconclusionata, fortemente sentita”
1. Parole di carta
Oggi Antonio Leonardo Verri avrebbe compiuto sessant’anni, se – come scrive Maurizio Nocera nel suo “Antonio, Antonio, o dell’amicizia”, Il Laboratorio, Lecce, 2003 - un poemetto, un lamento alla Garcia Lorca - non gli avessero spezzato le ali “all’incrocio del bivio dell’amore , /sul quinto ulivo della strada/ attraversata dalla civetta vecchia malridotta/ e cornuta pure”. Era il 9 maggio 1993 e quella morte , per un incidente stradale , pose fine ad un movimento letterario salentino importante , ad un Gruppo d’avanguardia che aveva creato lo stesso poeta di Caprarica di Lecce circa vent’anni prima, con “Caffè Greco” e “Pensionante de’ Saraceni” (fogli volanti di poesia che si vendevano ai passanti , ai semafori , a cento lire o anche a meno ) , partendo dal suo piccolo paese, un microcosmo , una sorta di Macondo salentina , centro dell’universo. Ma “forse la morte non porta via tutto”, aveva scritto lui in occasione della prematura scomparsa di un altro poeta salentino , il magliese Salvatore Toma, che lui stesso aveva scoperto, (se ne andava in giro, col lanternino , a cercare i suoi simili, i “selvaggi” come Edoardo De Candia, Claudia Ruggeri, Anna Maria Massari , gente lunare , inadatta a vivere su questa terra). Ma chi era Verri, questo fabbricante di armonie , questo cercatore di parole che non sapeva parlare ( balbettava) senza una “lingua di carta”, ma sapeva usare l’arte suprema della parola che illumina senza farsi troppo capire? Era , appunto, un mago di parole , “ parole che dicano, che facciano fede ai diversi e a volte strani momenti della mia vita, che molti dicono povera” , parole che riusciva a infilare nei ripostigli più segreti, un prestigiatore che le srotolava nei tappeti più colorati , le faceva cantare con voce di violino o contrabbasso ; “perverso amante del neologismo sfinterico, - scrive Astremo - per la necessità vitale di costruire un mondo possibile alternativo, fatto di grafemi, fonemi, lessemi dotati di una loro autonomia”, Verri era uno che con le parole scriveva il mondo, le cose , i desideri , le attese, le speranze, la vita, ma anche la morte, quel viaggio verso l’oro e il buio che sapeva essere prossimo . E allora cominciò a sotterrare i suoi sogni.( “Ho solo vuoti , solo amarezze, sbandamenti, il candore di sempre, che non riesce a vivere in modo regolare con le Pasque e i Natali al posto giusto”) . Le parole , (la sua lingua di carta ) , forse avevano perduto la fluidità, l’allegria , la magia , il loro potere divinatorio, non riusciva più a trovarle , gli restavano nelle mani, “nelle palme congiunte “ Quelle storie di carovane piene di tagli di luna adriatica e di confusione di luce e di blu che tutti chiamavano mare erano un groviglio di respiri, sensazione di ambra e corallo, l’abbraccio forte del padre, il bacio sulla bocca , il gesto veloce della mano piena di dubbi, lame scure e aperte , il sentimento di sconfitta, il senso di pesantezza, l’inciampo. Le parole ormai non lo consolavano più delle sue fatiche immani, delle perdite, rinunce, sfinimenti , bruciature, ferite . Aveva il vecchio cuore “tagliato a spicchi , non ancora del tutto sbrecciato , inesploso, il solito vicariante corpo squassato dai vecchi soliti colpi di tosse , il solito inverno (col solito lardo, con le solite cotiche , col solito vino) , il solito mattino che cola dall’argento dei cavoli e l’urgenza di ogni cosa …E il correre stolto , e il correre continuo , con ali bianche , quasi senza corpo , verso il solito albero d’oro , verso il solito vecchio profumato Eldorado”
Quando il suo grande corpo da antico messapo , la sua barba intinta nell’inchiostro saraceno , quella perfetta scultura di contadino che sa di terra senz’acqua rocce cardi spine sudore fatica sangue, quella figura di orco tenero e barocco che accarezza i bambini , grumi di carne e sangue tremanti e singhiozzanti, nelle sue manone impacciate , si è ormai ridotto a cadenza di memorie accartocciate , e lo spirito gli sollecita la fine eterna , eccolo vedere con estrema lucidità l’inizio e la fine , eccolo pensare , magari per un attimo, che avrebbe potuto essere l’essere dell’essere solo che “amore lo avesse colpito bene alle viscere ,al momento giusto”. In fondo , - aveva ragione il vecchio Totò Franz Toma - è bastato un fanciullo tenero e furente, pieno di irrisioni , deliri, sogni e incantamenti , come Rimbaud , a sconvolgere tutta la letteratura occidentale. E’ stato lui per primo a cercar scampo dall’ipocrisia e dalla menzogna , a rigettare la logica che presiede tutto il nostro sistema di pensiero e di forma , a ritrovare nel primordiale , nel selvaggio l’impatto bruciante e puro con il vero. E’ stato lui a risvegliare la parola dalla sua tradizionale funzione evocativa e simbolica, per ravvivarla e immedesimarla con la cosa presente. Tutte cose che il poeta di Maglie sapeva per istinto e a suo modo aveva imitato il grande “Rembò” ( entrambi erano morti giovani , per eccesso) , e che lui , invece , il vecchio “Ar”, ormai quarantaquattrenne , aveva tentato di mettere in pratica, ma forse non c’era riuscito. Lo avrebbero ricordato , soprattutto, ( così scrive sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” Raffaele Nigro, scrittore di fama consolidata , e suo adepta al tempo della “rivoluzione Verri”) come grande organizzatore culturale, carismatico tessitore di una nuova trama di fili rosso Salento, in cui –dice Salvatore Colazzo - venivano scoperti ( o ri-scoperti) personaggi geniali variamente creativi, alimentati da una cultura complessa, antica, misteriosa, capaci di dialogare col mondo, rivoluzionari, sovversivi per interiore esigenza di esplorare l’aperto, il diverso, l’oltre; angeli terribili della parola, del colore, del suono che incarnavano l’inquietudine, la disperazione , l’irrisione, la luce e l’ombra, lo stupore delle cose e il furore distruttivo che è insito nella creatività. Le riunioni , le celebrazioni, i riti di questa setta iniziatica che mescolava un po’ tutto, psicanalisi, letteratura, pittura, folklore , politica, avvenivano spesso presso il Mocambo di Sternatia , in cui si beveva fino allo stordimento, all’obnubilamento. Ed erano queste le conseguenze dell’amore per l’arte e la poesia, cose per nulla innocenti, dice Verri, che creano una serie di sbandati, di vagabondi in cerca di spigolature nei prati dell’infinito, scompiglio, singhiozzo , dolore e un mare di silenzio.
Niente di nuovo, del resto, disse una volta . A volte mi pare che quel che scrivo sia già accaduto…
2. Guisnes e la Betissa.
Forse prima di morire ricordò quando tornava a cavallo coi trofei della città di Guisnes , e spaziando già nel rigo , nei segni, non riusciva a contenere la sua lussuria e la sua baldoria , e rapiva una donna coi capelli di tabacco , le punte del seno scure come more, gli occhi di rondine . E beveva nella tazza antica della sua mente cercando il sapore avvelenato e forte della storia che tracimava, Cretesi Messapi Spartani, Bizantini, Saraceni, Turchi , e la perpetua città di Guisnes , là davanti , al traguardo dei novanta gradi , insieme a Nocera , fotografati da Bevilacqua in una sfida grottesca; ecco le ombre di Guisnes (alias Gardignano) che si gonfiano e si avvolgono e dilatano, complottano , radendo i muri…
Verri ha sempre cercato il pericolo, come un rabdomante cerca l’acqua. Anzi, era lui stesso che creava il pericolo, sceglieva il sentiero più stretto , e portava sulle sue spalle tutta la montagna molliccia di Guisnes, che era poi il peso di tutta la terra, una vecchia ruota niente di più…”Alzo la terra , non mi serve sapere l’ora , forse non mi serve capire perché un mugnaio scriva una cosmogonia o un fornaio un trattato sulle forme…” Oppure provava ad assaltare il cielo , a balzare verso il cielo , a drizzare la schiena in un volo disperato , come aveva visto fare a un pianista negro al pub di Maglie, ma non c’era niente da fare . Non c’era mai riuscito . Non ci sarebbe mai riuscito. Lui era angelo da pollaio , come quello di Marquez . Le ali ce l’aveva , ma non servivano. Avrebbe continuato ad andare in giro come un disperato , per altri inferni, sempre pieno di strazi , sguardi di vetro e di cieli ricolmi di stelle da far male. Per ogni abbraccio, per ogni nuova forma di luce e d’amore non avrebbe ottenuto altro che risucchi ritmati , colpi in gola , rantoli , coltellate al cuore. Era Rimbaud , con la sua dolcezza mortale e l’insolente pietà , alle prese con le vocali, con una grossa vocale (che passione!) ; o un architetto che costruiva le sue città invisibili , luoghi speciali , paesaggi urbanistici dove liberare viaggi e fantasia . Geometra, musicista, pittore, aviatore , era uno scrittore intento a dare un’ombra inclinata al testo, al suo progetto di scrittura , il famoso “declaro”, il declarus di Fra Senisio il siculo che nel ‘300 aveva scritto uno straordinario atlante linguistico. Aveva detto che non sarebbe morto se non avesse scritto il declaro, la summa della sua scrittura , della sua poetica, della sua ragione artistica , della sua stessa esistenza . Lì c’era tutto un magico equilibrio di contrari e un solido riparo all’amore per sua madre e la sua terra. “Stefan ha un Declaro per la testa, libro di libri, di parole e basta, un declaro che pretende il sacrificio, la scancellazione di qualsiasi cosa. E allora il corpo viene invaso da parole; più le parole crescono e più il corpo si ritrae, diventa l’ombra di una mano sopra il foglio”.
Affannato, insoddisfatto, annota, riscrive con foga il Gran Libro , opera con dubbi incertezze tormenti angosce timori e tremori , non sa veramente di che si tratti ; sa solo che è quello il suo impegno su questa Terra , questa mostruosa e affascinante “Betissa” , questa donna – scrive Fabio Tolledi- dalla fica dentata , marchingegno e divina creatrice , abnorme ammasso di carne e di luridume , di strabiliamento e di desiderio, di miasma e di profumo, di seduzione assoluta e di orrore , che è compresenza ambivalente della madre e della terra madre .
3. Vi lascio la città
Sa che deve lasciare tutto , e lo dice , con la sua lingua di carta , Vi lascio la città, proprio non mi va di scrivere , non posso continuare a concepire nelle immensa bocca di questo libro, vi lascio la città , è tutta vostra , una volta era rossissima , porosa e si rifletteva nel mio occhio strabico , nelle mie misurazioni, nelle mie balbuzie , nelle mie ire orgogli , brutture , timori pianti…Vi lascio la città , consumate quel che vi pare , non ci sarà più pomeriggio né domenica sul mio declaro , non ci saranno più le mie grida , né le vostre, ora non ci possiamo più capire. Guissnes è così rossa e putrida che solo riesco ad alzare la terra …vi lascio la città , non siamo più credibili …il libro è vuoto come un imbuto come un fondo blu…Prendetevi la città se volete rincorrere il gran libro che io non ho potuto fare , perché era utopistico, e perché non avevo più tempo...
Ma il suo peccato era molto più grave e non gli verrà perdonato. Aveva cercato di saccheggiare gli spazi del cielo , gli spazi del dio geloso , di rovesciare , con il suo arco , l’iddio geloso. (Mi portai nella cella una ragazza viva dal seno duro e l’anca delicata simile ad una viola fiorentina. E le chiesi d’insegnarmi un po’ d’orizzonte e vidi le mani del tempo che viveva attaccato ai muri della mia città, udii le voci e la linfa dei tronchi che vi scorrevano dentro).
Sa che occorrono molti scontri con i mulini a vento affinché uno decida di ammettere la realtà. E la realtà è “che un artista non fa ciò che vuole , ma ciò che può”. Ma non ha rimpianti . Non è più tempo di rimpianti per questo inguaribile e invincibile visionario, “ In fondo ogni parola è adorabile , anche la sciocca, la usata , che tutto sia un miracolo, la neve il pane la madre Otranto il rossore le fughe i marchingegni della notte le ragazze mulacchione le scoperte la scrittura il Turco dolce e un candore che non finirei di raccontare…” Sembra quasi un addio del giovane Holden.
Tutte queste cose Verri le ha scritte , in vent’anni di giornalismo letterario e di editoria alternativa , di sperimentazione linguistica e creativa, e altre ne aveva nella mente, insieme a colori, profumi e musica felice, l’odore del pane, il ritornar leggero a volare, le coltellate di luce, la fuga per la vittoria, la sabbia , la fatica , la barriera dei propri occhi, la fica , il sentimento dei muretti a secco, l’emozione della mani segnate del padre, delle rughe della madre, foreste palazzi e risate , le sciocchezze , le bevute , i prati e un po’ d’orizzonte per vedere odalische e cammelli e distese di sabbie roventi, da quel gran Saraceno che era. Avrebbe voluto reincarnarsi nel Galateo ( al secolo Antonio De Ferrarsi) , che aveva saputo interpretare stupendamente, alla grande nel suo “Fabbricante d’armonia”, un’umanista che ritrova se stesso e la sua identità nel ritorno nella sua terra, fra la sua gente. Un brano davvero esemplare: "La gente, qui, per me, come vi dicevo, ha il colore del mare, ha l'andatura di un'onda, il cuore negli occhi, un corpo azzurrato, perfetto...è stupenda questa gente...anche nel dolore, anche quando urla, quando impreca...: questa gente ha l'umore di questa terra, cresce con essa, ad essa confida i suoi mali, le sue gioie, i suoi dubbi, le sue ondulate tristezze... Qua si impreca alla morte, come vi dicevo, si grida...i paesi, qui, parlano con le campane, con le campane si annuncia un po' tutto - e il suono spande la sua ombra su distese di fieno e due vecchi sulla chiesa sono una carezza d'infinito: l'infinito si può scovare dappertutto in questo, e ogni cosa, ogni persona, ha un suo particolare stupore, dolore... Succede così anche a me...”
Ci rimangono i suoi lavori, da “Il pane sotto la neve” a “ La Betissa, storia composita dell’uomo dei curli e di una grassa signora “ (un testo – scrive Tolledi , di una densità poetica assoluta , di una densità altra che poco ha a che fare con l’intonaco putrido delle identità salentine , con la biacca plastificata della morte da depliant turistica di cui in questi ultimi anni abbiamo immellassato i nostri occhi e ciò che resta del nostro cuore ) , da “Fabbricante d’armonia ( la ricordata biografia del Galateo) alla “Cultura dei Tao” ( “folletti dell’aria con dentro il salentino mao e il veneto bao) da Il naviglio innocente a Il suono casual, da Bucherer l’orologiaio (postumo) a “ I trofei della città di Guisnes”, (che taluni considerano il suo capolavoro , “un libro troppo importante per la letteratura italiana d’oggi”, un libro che evoca Calvino, Kafka , Gadda e Wells, con una storia allusiva e angosciosa del mondo di domani , con dentro un sacco di cose nuove , il pastiche del linguaggio sperimentale, magmatico , vischioso, con le manipolazioni del dialetto, le architetture e l’urbanistica che sorregge una città tutta mentale , un libro che forse troverà gloria tra cinquant’anni, quando si avvererà la sua profezia) , al Quotidiano dei Poeti (“Cominciate, poeti, a spedire fogli di poesia/ ai politici, gabellieri d’allegria) , impresa utopistica, folle, che si realizzò e diede a Verri e al Salento due settimane di notorietà nazionale , tutte opere che solo grazie alla grande ostinazione, allo sforzo, alla venerazione e all’amore profondo del gruppo di amici che hanno creato la Fondazione Verri, che tengono in piedi uno spazio e una biblioteca - archivio dove sono confluite le sue carte , oggi abbiamo la possibilità di leggere , di apprezzare e valutare. Alcune di esse sono diventate quasi oggetto di culto, come ad esempio i due grandi, enormi volumi curati da Maurizio Nocera, il mitico “Quotidiano dei Poeti” e “Pensionante de’ Saraceni” , che non era un saraceno a pensione , alias Verri, no. Ma un ignoto collaboratore del pittore Carlo Saraceni , che lavorava a Roma nei primi del seicento. “Verri ha significato per molti di noi – scrive Eugenio Imbriani – il piacere di incontri impensati con personaggi e cose elevati e curiosi, come il pittore di cui amava il nome e la storia e al quale ha intitolato forse la parte più cospicua della sua attività editoriale…” Ma Verri (lo sappiamo) amava giocare con le parole , amava le ambivalenze , e nel nome del pittore seicentesco , nel suo ignoto umile pensionante aveva visto come un lampo una figurazione un destino, una profezia , e vi si era rispecchiato , aveva fatto clic, un’istantanea con quella polaroid che aveva nella sua mente e fissato il quadro, per sempre.

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