15 marzo 2017

IMMAGINE CONVESSA – POESIE a cura di Vincenzo Capodiferro

IMMAGINE CONVESSA – POESIE
Una raccolta che si spiana tra le spine che attorcigliano il cuore del Sud

L’Italia può essere immaginata come una persona, di cui il Nord è la testa, le Alpi sono i capelli, il centro è il cuore, il sud sono le viscere, la Calabria e la Puglia sono le gambe e i piedi. I versi di Vincenzo D’Alessio, come al solito sono pungenti e diritti, colpiscono al centro. Ma il centro, il cuore, è legato al Sud, al basso, più che al cervello. Vincenzo D’Alessio è nato a Solofra nel 1950. Si è laureato in Lettere all’Università di Salerno. È stato grande promotore culturale: basti pensare a proposito al Premio Città di Solofra ed al Gruppo Culturale “Francesco Guarini”. Ha pubblicato saggi di storia, archeologia e diverse raccolte poetiche, tra cui segnaliamo La valigia del meridionale ed altri viaggi (Fara 2012, più volte ristampata). Io debbo ringraziare Vincenzo per avermi, in questa ultima raccolta, Immagine convessa. Poesie edita da Fara, Rimini 2017, dedicato una bella poesia. Ha ricordato anche le maestre, - nostre care - Ida e Teresa. Sono Ida Iannella e Teresa Armenti, le nostre maestre che ci hanno seguito nella formazione nella Scuola Media Ciro Fontana. È il pensiero di un padre, di chi per noi è stato sempre una guida, un riferimento. Il circolo dei poeti Irpini ci ha sempre ispirato. L’Irpinia e la Lucania sono state da sempre in fraterno abbraccio. Come scrive Anna Ruotolo di quest’opera: «Ciò che noi vediamo dell’occhio umano è una forma convessa: è questo movimento del gettarsi in alto – avanti, in un emiciclo che comprende e introietta tutto». Rileggiamo brevemente anche il giudizio di Teresa Armenti: «C’è tanta amarezza in questi versi, che riflettono la condizione dell’uomo oggi – umanità sfatta senza suono: i giovani che crollano dentro sogni vuoti, sono prigionieri delle nuove tecnologie e non riescono più a dialogare con la natura. L’autore trova conforto nei ricordi di un mondo contadino ormai scomparso». Sulla copertina si trova l’immagine di un giovane, Antonio D’Alessio, figlio di Vincenzo, scomparso prematuramente. È forse questa l’immagine convessa cui Vincenzo si riferisce! Non è facile capire l’amarezza del dolore della perdita: il tema del Sud si intreccia in questa terra della perdita. Non si può guardare il mondo più allo stesso modo: è difficile. Il dolore sconvolge la vista, l’immaginazione. E scrive ancora Alessandro Ramberti nella prefazione: «Ecco, in D’Alessio la poesia è dramma, mette in scena le condizioni del Sud e al contempo le contraddizioni di ciascuno di noi (perché in ciascuno c’è una parte violenta, un lato oscuro, il desiderio di imporsi, di disfarsi di quel che in noi e negli altri può ostacolare l’autoaffermazione …) …». Il tema centrale come sempre è il Sud, terra di magia, ma nello stesso tempo di disillusione – la magia intesa come facoltà illusoria – velo di Maya – terra di magia bianca, rossa e soprattutto nera. Per uscire dal marasma del Sud, colorato di modernità, ma ancestrale, Vincenzo si rifugia, come tanti altri intellettuali, nel mito dei contadini scomparsi, questi contadini tanto celebrati da Scotellaro e da Levi. Leggiamo i suoi versi: «Dio maledica/ la terra dove/ non si affrancano/ i contadini dall’ignoranza …». Ci sono solo quelli che sono rimasti: chi non se n’è andato. Pochi siamo meglio siamo: cantava Arbore. Eppure nei suoi versi si respira un’oasi di nostalgia, di romantica sensucht: il ricordo senza ritorno. Un uomo senza origini è perso. Ma siamo tutti figli di quei contadini spariti. «L’urlo della trebbiatrice» (p. 23) ci ricorda le poetiche di Palazzeschi, e perché no? Il pianto della scavatrice di Pasolini. «L’odore del grano» (p.32) è commovente. Ci fa ricordare i tempi antichi, quando anche noi andavamo a raccogliere i covoni dietro i mietitori. Una volta ricordo che mio zio Carmine mi portò a mietere riponendomi nel canestro dell’asino. Ma come possiamo dimenticare quel mondo dei contadini, in cui siamo cresciuti nella nostra infanzia? Di fronte a quest’ansia romantica dell’eterno non-ritorno si avverte l’angoscia, la disperazione, il pessimismo, la noia, l’abbandono. Il pessimismo cosmico d’alessiano è vicino al ciclo dei vinti di Verga. Lo inter-leggiamo nei suoi versi, ad esempio: «Nei piccoli paesi i gelsomini/ piangono dietro mura antiche/ l’edera rinnova il patto con le case/ l’erba cedrina profuma il teatro/ del tempo … ». o nel ricordo dei pastori: «Tornano i lupi/ sulle montagne/ ovili vuoti si cibano/ di miti, muoiono solitari/ nei boschi di faggi … ». Non deve farci scoraggiare questa immagine convessa. L’arte è espressione del vero, oltre che del bello, o del sentimento, di crociana memoria. L’arte si fa denuncia-annuncio. L’arte svela ciò che è nascosto. Ciò che è nascosto sarà gridato sui tetti. L’arte è vangelo, è buona novella, è alheteia: svelamento di ciò che era nascosto, dimenticato. Così questa immagine convessa diventa stimolo per il cambiamento. La poesia del D’Alessio d'altronde è votata alla prassi, proviene dalla letteratura del socialismo, dell’avanguardia: «”I miei compagni mi/ aspettano a Stalingrado!”». L’immagine che noi ci facciamo è l’Idea: da “Vid”, “video”, “videor”. L’immagine convessa è contraria di quella concava. Quella concava è accogliente onni-abbracciante, quella convessa è respingente, è come uno sperone che si scaglia sulla realtà. È una vista ostica, dura, che colpisce. Ma quel ciclo dei vinti verghiani si trasfigura poi, alla fine in un ciclo di vinti quasi manzoniani: Dio «parla al silenzio» (p. 65) e «ci consola/ della salita dopo la croce» (p. 66).


Vincenzo Capodiferro

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