12 gennaio 2018

“I FIUR DUl MAL” E “I SUNET” DI SHAKESPEARE di Giorgio Sassi, recensito da Vincenzo Capodiferro

I FIUR DUl MAL” E “I SUNET” DI SHAKESPEARE
Una forte sperimentazione in vernacolo dei classici della letteratura, a cura di Giorgio Sassi

Giorgio Sassi è nato in Val Bossa, ad Azzate, nei pressi del lago di Varese, nel 1947. Faceva di mestiere il tipografo ed il correttore di bozze. Ha pubblicato su giornali locali poesie, novelle ed ha curato una raccolta di proverbi della sua terra. Nel dicembre del 2012 ha pubblicato “I balòss”, ristampata nel febbraio 2013, e poi “Ul Mago”. Nel 2014 ha pubblicato “I sunet” di Shakespeare, in dialetto varesino, ed infine nel 2016 “I fiur dul mal” di Baudelaire. Ha tradotto in dialetto varesino due capolavori della letteratura mondiale: i “Sonetti” di Shakespeare, “Scèspìr”, come lo chiamo lui, e “I fiori del male” di Baudelaire. Come scrive Andrea Fazioli nella prefazione a “I sunet”, «Chi può essere mai tanto folle da voler insegnare a William Shakespeare il dialetto di Varese? Bè, carissimi lettori, la risposta è semplice: Giorgio Sassi. Grazie alla sia sapiente follia, i versi di Shakespeare risuonano ora anche con gli accenti e la cadenza della nostra lingua. E continueranno a risuonare, almeno fin che òman fiadarann e occ vedran …». E riprendiamo anche la premessa a “I fiur dul mal” di Gianmarco Gaspari: «”I fiur du mal” di Giorgio Sassi hanno a fianco l’originale, ma quello, si consiglia, non andrà letto in parallelo, per esercizio di confronto. Il piacere del lettore sarà piuttosto nell’avvicinamento senza diaframmi al testo dialettale, e nel cogliere lo scarto, la minima (e voluta) smagliatura, la cifra, in più di un caso sorprendente, della personalità e della lingua che traduce». Veramente notevoli sono queste due sperimentazioni linguistiche e lessicali di Giorgio Sassi, il primate di Bodio, primo perché denotano una grande passione per il dialetto, soprattutto nei nostri borghi, ove il dialetto si perde, o diventa museale, vuoi perché c’è stata una forte frattura generazionale, vuoi perché con la globalizzazione si tende a diluire tutto nella baumaniana “società liquida”. Eppure dietro le forme dialettali c’è tutta una cultura, una mentalità, un patrimonio, anche orale, a rischio di estinzione. Secondo perché scorgiamo in queste opere un altissimo valore letterario di traduzione. Traducere significa riportare, ma anche tradire. C’è una forte ambiguazione in questa attività. La traduzione è una vera e propria opera letteraria. Già in italiano è difficile rendere il vero senso delle opere, immaginiamoci in vernacolo! È forte la differenza tra senso e significato, significato e significante. Questo ce lo insegna la linguistica del De Saussure, come è forte la differenza tra lingua e parola. Il traduttore deve cogliere il senso dell’opera e riportarlo. È un lavoro difficile, peggio che di creare dal nulla l’opera. È un’opera ardua ed ammirevole, ma almeno per “I fiur dul mal” tra lingua varesina e francese ci sono molte assonanze. I francesismi, memorie delle nostre dominazioni, non mancano. Ed anche Shakespeare molto ha a che fare con l’Italia. Cos’è che accomuna Baudelaire e Varese? Certamente quell’alone simpatetico di melanconia, quel romanticismo eterno, fatto di titanismi e di sehnsucht, che vibra nei nostri cuori e nelle nostre menti. Il tema centrale che accomuna questi autori ce lo dà proprio il nostro grande poeta Ungaretti, che aveva tradotto in italiano i sonetti shakespeariani, come sottolinea Franco Di Carlo, in “Ungaretti e Leopardi”, Milano 1979: «Ungaretti fa notare come in Baudelaire (e poi in Mallarmé e Rimbaud, ma prima di loro in Petrarca e Shakespeare), il «sentimento dell’assente» come erosione della realtà, come «viaggio» nella «realtà metafisica e simbolica» della poesia sia alla base della sua lirica». Ciò che accomuna tutti questi autori così lontani (Ungaretti, Baudelaire, Mallarmé, Rimbaud Shakespeare) è proprio questo forte sentimento dell’assenza: una realtà invernale, spoglia, che invita alla riflessione. Leggiamo ad esempio il sonetto LIX shakespeariano: «Oh pudess la memòria turnand indree da ann,/ anca da cinchcént gur du Sul/ mustramm la vostra imàgin in quai libar da cent’ann,/ vun di primm dua ul penseer la sia staa scrivuu». In particolare in questi autori prevale l’alone mistico del romanticismo, di quel romanticismo che Stendhal, in “Racine et Shakespeare” (1823), aveva preso a difendere contro il classicismo: «Il romantico,» sottolinea Sandra Teroni, in “Da una modernità all’altra. Tra Baudelaire e Sartre”, Venezia 2017, «è identificato con la fedeltà del mondo attuale,» mentre il classicismo si rivolge al passato. «Baudelaire sosteneva la storicità del bello, la modernità del dandismo, le ricchezze della cronaca di costume, la necessità di riattivare le capacità di vedere, al fine di cogliere il «meraviglioso» quotidiano e cittadino». Leggiamo ad esempio il paesaggio parigino nella traduzione del LXXXVI carme: «Par cumpònn i mè bucòlich in manera inucènt,/ vori stravacamm visin al cièl, ‘me i vegènt,/ e, visin ai campanìn, scultà sugnand/ i lur inn sulènn traspurtaa dal vent». E poi il dialetto di Varese è bellissimo, musicale e fine, come scriveva il prof. Luigi Brambilla, in “Varese ed il suo circondario” Varese 1874, a pag. 328: «Il dialetto varesino è poi di una pronuncia piana ed armoniosa da avvicinarlo in questo un poco al romano, in particolar modo col mutamento della lettera l in r, così i Romani dicono er Papa, i Varesini dicono ra Madonna dur Mont». L’opera poetica del Sassi è veramente ammirevole perché riporta l’attualità e la naturalezza della lingua locale, coniugandola con un esperimento letterario di alto spessore.


Vincenzo Capodiferro

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